L’industria in Alta Irpinia perde pezzi: fate presto!

Tra una settimana si ricorderà per il 36esimo anno il terremoto del 1980. Il “Fate presto” de Il Mattino, titolo evocativo e quanto mai inflazionato, riecheggerà con ottime probabilità in ogni servizio, convegno o cerimonia. Quel sisma catastrofico segnò l’avvio di una fase nuova per la provincia di Avellino, in particolare per l’Alta Irpinia, che nel giro di pochi anni, smaltita l’onda emotiva iniziale, vide arrivare risorse per la ricostruzione e con loro progetti di sviluppo. Si puntò tutto o quasi sull’industria con la nascita di otto aree industriali nel perimetro del cratere.

La nostra testata si colloca tra quanti non demonizzano quella scelta, non demonizzano le fabbriche. Pensiamo che ancora oggi la produzione industriale sia necessaria per l’economia di questi luoghi perché, inutile illudersi, abbiamo i borghi e i castelli, abbiamo la montagna e i campi, ma non tutta l’Alta Irpinia è esteticamente presentabile e non tutta l’Alta Irpinia poteva rinascere e può oggi sopravvivere puntando solo sulla bellezza, il turismo (a proposito, cosa intendiamo per turismo?), il mangiar sano e buono e altre “amenità” del genere. Semmai crediamo che l’errore sia stato caricare tutto il peso della ripresa economica e sociale su quelle aree industriali, tralasciando per lungo tempo lo sviluppo di altri settori e servizi, abbandonando in massa i campi. L’errore fu moltiplicare gli insediamenti produttivi e quindi i costi per la loro infrastrutturazione, fu chiudere gli occhi sulla qualità e la salubrità degli investimenti che venivano realizzati. Fu la mancanza di una cabina di regia, di un disegno che favorisse la nascita di poli produttivi e distretti ed evitasse casi come quello di Senerchia-Calabritto: area industriale dell’Alto Sele caratterizzata dallo stridente contrasto di una bulloneria confinante con un pastificio.

Tutta questa premessa per arrivare all’oggi. Un presente fatto di numeri complessivamente non drammatici: se si confrontano le previsioni occupazionali degli anni ’80 nelle otto nascenti aree industriali con i dati attuali, forse a sorpresa, si ci renderà conto che le cose non vanno poi così male. Potremmo quindi chiudere frettolosamente la pratica dicendo che l’industria in Alta Irpinia è stata un’idea vincente, che le fabbriche reggono e danno lavoro a tante famiglie. Le cose però sono più complesse di quello che sembrano. Se oggi il numero degli occupati complessivamente non differisce molto da quello previsto dalla legge 219/81, lo si deve quasi esclusivamente all’area industriale di Morra De Sanctis dove insistono realtà come la Ema e la Altergon con le loro centinaia di dipendenti. Basta infatti spostare di poco lo sguardo per vedere nuovi cadaveri ammassati sul campo di battaglia. Nel già citato insediamento dell’Alto Sele, come riportava Il Mattino mercoledì mattina, ha chiuso i battenti la Bio.Con; stessa sorte nell’area di Nusco-Lioni per la Smada. A casa vanno rispettivamente 11 e 16 dipendenti. Nel primo caso via licenziamento diretto; nel secondo procedendo alla messa in liquidazione e alla richiesta di concordato preventivo. Entrambi gli stabilimenti vivevano momenti difficili da tempo. Alla Bio.Con l’assenza di commesse da almeno due anni aveva costretto la proprietà alla richiesta di ammortizzatori sociali per crisi e alla messa in mobilità volontaria concordata. Insediata nel 2000, l’azienda si occupava di recupero e riciclaggio Raee, una realtà unica nel suo genere in Italia che poteva dare lavoro a una ventina di addetti. Alla Smada invece, presente in Alta Irpinia dal 1989, l’attività produttiva si concentrava sulla verniciatura industriale. Ventisette licenziamenti che vanno ad aggiungersi ai 97 già operati nel corso di quest’anno dalla OCM di Nusco, azienda dirimpettaia proprio della Smada, per la quale si sta cercando un acquirente dopo la decisione dei proprietari (la famiglia Cellino di Grugliasco) di chiudere produzione e stabilimento. Insomma, centoventiquattro lavoratori in meno, con altrettante famiglie in difficoltà. Forse poche unità rispetto a quelle coinvolte in crisi industriali in area metropolitana, ma una cifra enorme per il contesto altirpino.

 

A inizio novembre, non senza polemiche (leggi qui), è stato pubblicato l’elenco delle aree di crisi industriale non complessa della nostra regione, cioè siti con difficoltà sul piano della produttività e dell’occupazione. Inutile dire che quasi tutto il territorio regionale è rientrato nella definizione. Le aziende ricadenti nei comuni individuati potranno accedere a programmi di investimento finalizzati alla loro riqualificazione. Si è in attesa dell’ok definitivo da parte del ministero dello Sviluppo Economico, poi toccherà al dinamismo di imprenditori e amministratori locali cogliere le opportunità che lo status di “area di crisi industriale non complessa” comporta. Accanto a questa opportunità di inseriscono quelle che dovrebbe attivare la nuova politica nazionale e regionale sull’industria 4.0 e la “rivoluzione” annunciata con la legge che dovrebbe riformare i consorzi Asi. Se però i fondi arrivassero alle aziende senza rimuovere parallelamente quegli ostacoli di contorno ma non certo secondari per lo sviluppo (infrastrutture viarie non adeguate, banda larga spesso assente, servizi carenti), avremmo messo una toppa sul buco e nulla più. Con la speranza, inoltre, che le risorse arrivino subito e che la burocrazia ancora una volta non faccia da freno all’industria, quella fatta di carne, ossa e lavoratori che da Nord a Sud langue e muore.

Paola Liloia

Classe 1985, laureata alla Sapienza in Editoria, Comunicazione multimediale e Giornalismo. Ha collezionato stage in uffici stampa romani (Confapi, ministero per la Pubblica Amministrazione, Senato) e collaborato con agenzie di comunicazione, quotidiani online locali e con il settimanale "Il Denaro". Ama la punteggiatura. Odia parlare al telefono e i tacchi. Ama l’Inter e le giornate di sole.

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